dal diario di Alessandra, volontaria di RM
L’uscita con Rete Milano comincia alle 20. Non ci piace chiamarla ronda, ma l’idea è quella. Si gira per la stazione, in due o in tre di solito, con le nostre pettorine gialle, a cercare chi può avere bisogno del nostro aiuto. “Migranti transitanti”, nello specifico, persone che arrivano con il treno da Trieste perché “hanno fatto la rotta balcanica”; qualcuno che è lì da qualche giorno e dorme nei prati davanti alla stazione insieme al popolo dei senzatetto “stanziali” - e che chi di noi frequenta la stazione più spesso riconosce; altri che arrivano perché stanno cercando proprio noi e hanno scritto al numero di telefono che qualcun altro, nel giro di informazioni che per fortuna passa tra migranti, gli ha dato. Quasi nessuno di loro ha intenzione di fermarsi in Italia, tra di loro c’è un passa parola sulle difficoltà prima di accedere alla questura per la regolarizzazione e poi avere accoglienza.
L’appuntamento è davanti al bar Mac Donald e da lì si comincia. Dopo qualche settimana di questi giri si cominciano a riconoscere i gruppi: gli afgani per i tratti somatici ma anche per i vestiti dimessi, i volti stanchi, sono quelli che hanno fatto il viaggio più lungo, arrivano dopo anni di cammino e di campi profughi, molti di loro sono partiti da Kabul nell’agosto del 2021, con l’arrivo dei talebani; molti avevano 12 o 13 anni quando sono partiti, da soli, e arrivano che sono ancora minorenni; gli eritrei, sempre in gruppi numerosi, 10 che poi diventano 20 e alla fine della serata 30, stanno sempre insieme e non chiedono niente, solo raramente delle scarpe chiuse perché sono quasi tutti in ciabatte; ragazzi dalla Tunisia o dal Marocco, spesso minorenni, che hanno avuto un viaggio più semplice degli altri, solo perché a loro è concesso arrivare in Turchia senza visto, poi da lì però la strada a piedi attraverso la Slovenia, la Croazia (e tutti raccontano delle vessazioni della polizia croata), la Bosnia… è la stessa degli altri e richiede minimo tre mesi: è la Balcan route, che se la superi ti sembra di poter andare ovunque e di aver fatto il più del viaggio; poi ci sono gli africani della Guinea, della Costa d’Avorio, del Ghana… spesso sono soli, spesso anche loro sono minorenni e sono in viaggio - dopo aver attraversato il deserto e il mare - da anni.
La legge dovrebbe proteggerli e assegnare un posto in una struttura, seguiti dai servizi sociali, peccato però che in questo momento le strutture a Milano siano tutte piene e molto probabilmente i ragazzi non hanno avuto nessuno che gli consigliasse dove andare.
Al mercoledì siamo fortunati perché, oltre a noi, ci sono le postazioni fisse di Naga-Medicina di strada con il suo camper e di Mutuo soccorso-Drago verde che porta cibo per tutti. Almeno questa sera un pasto caldo è garantito. Invece per un letto e un tetto, che fino a poche settimane fa potevamo proporre in due strutture della città che ora sono chiuse, non abbiamo molto da offrire. Stasera c’è solo un posto nell’appartamentino da noi gestito in via Forlanini, e lo assegniamo subito ad un ragazzo della Guinea davvero malmesso, che dorme in strada da 4 giorni senza nemmeno mangiare. Rete Milano può ospitare solo una notte/massimo due per non incorrere nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Passiamo la serata a girare tra i vari gruppi, parlando con tutti, anche se non possiamo aiutarli, ma crediamo che sia importante lo stesso farsi vedere, chiacchierare un po’, trattarli come viaggiatori e non come profughi. Si ride e si scherza anche, mentre loro mangiano. Di colpo l’atmosfera si raffredda, si avvicinano una ventina di poliziotti guidati da uno di loro che brandisce una paletta spartitraffico (strumento piuttosto ridicolo, in quel contesto), perché si sente di dover garantire “personalmente” il decoro della stazione. Sembra tutto sulle sue spalle, comincia a gridare contro i volontari che distribuiscono i pasti perché non fanno abbastanza affinché i piatti e i bicchieri sporchi vengano gettati negli “appositi cestini”. Il problema, quindi, è quello: una questione di decoro pubblico.
Ma davvero il problema può essere qualche piatto di plastica fuori dai cestini? Tra l’altro i ragazzi che hanno mangiato vengono da me per dirmi che loro puliscono sempre la piazza, ci stanno attenti e vogliono che io lo sappia. Del resto quel luogo, più che dei viaggiatori di passaggio, è per loro una “casa”. Sono loro, non noi, quelli che si mettono a dormire sui prati la sera, qualcuno più fortunato con le coperte isotermiche, la maggior parte senza niente a coprirli. E di notte sta cominciando a fare freddo.
Mi viene in mente che forse, al posto dei piatti sporchi, sono i corpi dei migranti quelli che non si vorrebbero vedere, che rovinano il decoro, disturbano la vista. Non si vogliono vedere le decine di persone che ogni giorno dormono sui prati della stazione perché non hanno un posto dove andare.
E chi, come noi, cerca di aiutarli – pur con la sensazione costante di “svuotare il mare con il cucchiaino” - procura un leggero fastidio alla coscienza di molti. “Se ognuno di noi facesse il suo pezzettino, ci ritroveremmo in un mondo migliore senza accorgercene,” diceva Teresa Sarti Strada, e penso che se chi si lamenta una volta al mese decidesse di ospitare uno o due ragazzi per una notte, come fanno alcuni di noi, potrebbe anche accorgersi che aprire le braccia per accogliere non costa così tanta fatica come si può immaginare, anzi, a volte è molto più facile che voltare la testa dall’altra parte per non vedere, o agitare una paletta spartitraffico…
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