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Storia di Ali, piccolo afghano solo in Europa.



Lo conobbi a casa dei miei genitori dove era approdato grazie alla segnalazione di Fausta, allora volontaria di Progetto Arca e ora presidente di Rete Milano, per dare un aiuto a gestire i molti risvegli notturni di mio padre. Era un ragazzino, forse nemmeno ventenne, nemmeno lui sembrava conoscere esattamente la sua età. Nel suo inglese un po’ incerto mi spiegò che in Afghanistan “nessuno festeggia i compleanni” e nel guardare quella capigliatura inchiostro e quegli occhi miti ancora da bambino, mi chiesi come fosse riuscito ad avere il coraggio di affrontare quell’odissea piena di pericoli. Aveva viaggiato inizialmente a piedi o a bordo dei traballanti carri merci che lenti percorrevano le strade sgangherate del suo Paese, poi si era pagato un aereo che l’aveva portato in Iran. Da lì aveva proseguito per la Turchia, Bulgaria, Germania e Svizzera. In Svizzera aveva dichiarato di voler andare in Italia, ma con un inganno da parte della polizia locale era stato riportato in Croazia. Poi il “game”: a piedi nella foresta Croata, braccato da una polizia crudele, armata e dotata dei metodi piu’ sofisticati per intercettare i migranti. Dopo il miracoloso arrivo in Italia finalmente Milano dove, presso il centro di Via Sammartini conosce Fausta e altri volontari ora attivi in Rete Milano che non lo hanno più lasciato solo.

Oggi, a sei anni dalla fuga dal suo Paese, mi racconta il perché della sua partenza, mentre a ripensarci ancora gli trema la voce. La sua storia è quella di tante persone che, col ritorno dei talebani in Afghanistan, non ha avuto altra scelta se non quella di andar via.

L’uccisione di suo padre, assassinato senza pietà perché aveva lavorato con gli americani. Le minacce di morte a lui e alla sua famiglia che riesce a mettere in salvo in Pakistan.

Non posso elencare tutte le peripezie raccontate da Ali: troppa confusione, troppi step da superare in un dedalo di difficoltà senza fine… ma a pensarci, anche solo parte del suo racconto sarebbe del tutto inconcepibile se vissuta da uno dei nostri figli. E anche Ali, pur con una forza d’animo per noi impossibile da immaginare, da ragazzino solo quale era, in un Paese che non gli stava dando aiuti concreti, senza conoscere la lingua e senza soldi, sei anni fa ad un certo punto mi era sembrato davvero perso. Ma lui non è uno dei nostri figli, e con una forza di volontà dettata dall’assenza di alternative, ha trovato la forza di tirarsi fuori da quel pantano. I volontari del centro di via Sammartini gli hanno dato allora un supporto insperato: un paio di scarpe, qualche indumento e una sistemazione temporanea.

La decisione, un paio di giorni dopo, di spostarsi a Trieste, una città piu’ piccola dove pensava fosse più facile chiedere asilo è stata seguita da giorni durissimi.

Notti passate in una tenda di fortuna nel Silos, una costruzione gelida e infestata dai topi, un mese in Puglia a raccogliere pomodori per criminali che non lo hanno mai pagato.

Altri lavori precari e mal pagati, ma nel frattempo, nonostante la fatica dei suoi giorni e un futuro ancora molto incerto, lo studio dell’italiano e la licenza di scuola media.

Con il diniego e il respingimento in Croazia, il primo paese in cui era stato identificato, abbiamo temuto di vederlo crollare. Momenti di disperazione fino ad un ricovero in ospedale per tentato suicidio. E’ stata dura per lui ma anche per noi che da lontano cercavamo di aiutarlo. Con l’aiuto di un avvocato il sospirato permesso di soggiorno è arrivato solo due anni dopo.

Ora la sua vita è cambiata. Trieste, la città matrigna che lo aveva prima messo all’angolo nel Silos e poi addirittura respinto, è ora la città, molto amata, dove ha scelto di vivere. Lavora a tempo pieno dividendo le sue giornate come responsabile di una società di rider e come mediatore culturale. Non ha ancora una ragazza perché ha poco tempo, e una timidezza disarmante che ancora limita la sua iniziativa. Però è felice, perché ha una sua serenità, riesce a mandare dei soldi alla madre con regolarità, e si sta prodigando perché le sue sorelle possano studiare. Quando puo’ viene a Milano a trovarci. La bellezza del suo sorriso mentre ci ringrazia e ci dice ‘sono stato fortunato a trovare persone come voi’, mi fa sentire piccola e indegna del suo sguardo. Grazie a te, Ali, per quello che ci hai insegnato.

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